Anteprima 2 Sud 9/ Giancarlo Mazzacurati
Il brogliaccio
sinistro ipo-romanzo italiano, per cori di voci soliste, viole da gamba, organetti e scetavajasse
di
Carlo Curati / Giovanni Mazza
I – Infanzia e adolescenza
– Ah, questa poi….
– Sì, è proprio così, te l’ho già detto… Giovanni non riesce più ad andare avanti e non si vuole fermare, come debbo ripetertelo?
– Digli che smetta, allora. Scrivere ha senso solo finché ti diverti o finché ti pagano… e poi, scrivere cosa? Un’autobiografia… Tsé, se c’è un genere ridicolo e spudorato… Bisognerebbe abolire il pronome ‘io’. Affari suoi, comunque: ma noi come c’entriamo?
– Vorrebbe una mano, una mano fredda, dice lui… s’è avvolto in una tale selva di appunti, squarcetti, pezzi di carta volanti, coriandoli e pensierini sublimi scritti dietro una scatola di fiammiferi, che non ci raccapezza più; e si lamenta, al solito, come un suino scannato.
– Se non ci si raccapezza più lui, nella storia della sua vita, dovrei vederci chiaro io, che non ricordo neppure cos’ho fatto o pensato ieri?
– Appunto! Per questo promette che, quando vorremo, sarà lui a scrivere la nostra vita; sostiene che può scriverla solo chi non l’ha vissuta… sai com’è bislacco. Potremmo provarci però. Qualche giorno, a tempo perso… non so perché, ma dà tanta importanza a questi ritagli che mi dispiace dirgli subito di no.
– Fai vedere…!
– Ecco qui: un dattiloscritto ingiallito con tre diverse versioni che si incastrano una nell’altra, un centinaio di foglietti sparsi, un calepino con cento giunte che non si sa dove attaccare… Il tutto con una calligrafia che sembra quella di una pulce anemica.
– Altro che un po’ di amici a metter ordine: qui ci vuole un archeologo, fornito di paleologo, di paleografo, di poligrafo e di poliglotta… e se avanza posto, anche di un polifilo testardo. Beh, fammi dare un’occhiata.
II – Giovinezza, con qualche grigio sbaffo
– E dire che mi aveva parlato di un romanzo umoristico… Invece, ci sta rovesciando addosso una vescica di malumori. Capirai… ha scoperto anche lui che la vita è una malattia mortale. Sacre ombre dei comici: ricominciamo, ancora una volta, da capo…
– Da capo? E dov’è, scusa, il capo? Passami un filo qualunque e ci arrangeremo alla meglio…
– Sai, ho l’impressione che faremo meglio a mettere l’impasto sotto la protezione di qualche divinità. Del resto quasi tutti gli scrittori pongono le proprie metropoli verbali sotto uno scettro, mischiando più o meno inconsapevolmente gli affari e la morte…
– Per conto mio, io sono già da qualche tempo sotto la sua tutela: da quando il corpo ha cominciato a maltrattarmi. Tento ancora di dominarlo, da quel servo grossolano che è, ma ormai ha preso arie da padrone e spesso mi piega fino ad avariarmi l’anima. Ma io, al contrario di Giovanni che fa i capricci, con lui ci gioco. Per tenerlo ancora un po’ in scacco, ogni giorno fingo di congedarmi fa lui: sa che senza di me non riuscirebbe più neppure a muoversi e per qualche ora si finge remissivo, per poi ferirmi all’improvviso, quando allento la guardia. Negli intervalli di questa schermaglia poi, mi esercito ai più prevedibili addii: un quarto d’ora ogni giorno, verso sera. Come ogni ginnastica, anche questa accresce le riserve di ossigeno nei polmoni, ridona sapore alle cose ritrovate, valorizza le figure diurne, rende vani gli incubi notturni, sciocche ripetizioni involontarie di un esercizio che governo pienamente, prima di notte. Scompaio e riappaio lungo i corridoi e le stanze, ascolto campanelli suonare, orologi ritmare a vuoto il tempo, non più per me. Io non ci sono; al massimo, fingo di essere lì, un intruso, un ladro penetrato in una casa deserta, disabitata da poco.
– Anche io faccio più o meno così. E anche un modo per vedere meglio come saranno le mie cose, dopo. Le mie cose, poi… Nulla che abbia davvero valore, intendiamoci! Libri che mi rimproverano imploranti o minacciosi dagli scaffali, perché li prenda almeno una volta in mano, qualche mobile (forse) dell’ottocento, due plaids scozzesi, che (beati loro) mostrano ormai la trama, tre uova di alabastro da palleggiare soprapensiero, un bussolotto di cuoi per giocare a dadi, i quadri di un amico che mai ha visto decollare le proprie quotazioni e che continua a riempirmi le pareti di malinconiche monocromie blu. Potrete svendere tutto, senza rimorsi: ti garantisco che, finché son stato vivo, avrei cambiato tutto ogni giorno, libri, quadri, pareti, ore, terre, paesi e bussolotti.
– Ma come siamo arrivati a queste note testamentarie? I discorsi di Giovanni t’hanno immalinconito?
– No, anzi… certo, un po’ era anche per rispondere indirettamente a lui. Dobbiamo farla finita… quelle cose, immagini, feticci, avatars, cui sembra tanto legato, in fondo non ci amano e in fondo forse neppure noi le amiamo… prova a guardarle freddamente, quando lasci la casa. Sono quasi sempre indifferenti alle tue uscite e alle tue entrate; e credo siano pronte a offrirsi a chiunque come odalische di bazar.
– Certo! E quando non sono indifferenti sono torbide, livide all’alba, opprimenti d’estate, arruffate e languide al tramonto, frigide nei giorni di noia; mentre nei giorni patetici ti intrappolano con false lacrime, ti richiamano con oscure premonizioni, ti istigano a commiserarti e a commiserarle. E tutti questi incitamenti chissà perché, me li rivolgono in particolare quando sentono che sto per tornare felice, senza di loro. Perché a me capita spesso di tornare felice. Non torna soltanto la barbarie o la decadenza, torna anche la felicità, l’incoscienza, perfino l’innocenza e la voglia di abbandonarsi a qualche anchilosata capriola. Gli spiriti loici, i cibernetici, i collezionisti di algoritmi da inscatolare nei computers mi diranno che questa ciclicità della gioia personale è un fragile argomento per predirne l’eterno ritorno. Ma a me che importa? Puzzo ancora di Ottocento lontano un miglio e prima che le loro macchine l’abbiano vinta del tutto, non ci sarò più. Che la felicità torni o non torni nel 2331 mi interessa davvero poco; mi premono soltanto le mie mestruazioni di felicità; e quelle sono regolari, come i tramonti e le aurore. Ma le cose? Lì a trascinarti sempre verso abitudini vuote, perché come nei matrimoni o negli amori invecchiati, legano più le assuefazioni rancorose, le piccole sicurezze automatiche delle felicità da inventare. Qualcuno dice che il solo modo di esistere in due, è di adoperarsi, sia pure sbadatamente. Così, anche con le cose. Per questo non ti lascerebbero mai andare, quando parti perché sei felice: se non le adoperi, anche senza più guardarle, annegherebbero nell’indifferenza e nella morte propinata dai tarli.
I commenti a questo post sono chiusi
alla ciclicità delle cose non si sfugge
e le cose, queste ‘maledette’ cose, saranno sempre lì, tra cent’anni come in passato, ad aspettare nuove mani,
adoperate.