Il film sui Feltrinelli che la Feltrinelli nega agli italiani
di Nicola Lagioia
Non è mai tardi per una gita a Chiasso. Sembra bizzarro nel 2007, ma il monito con cui Alberto Arbasino sbeffeggiava gli intellettuali del Ventennio – i quali, anziché piangersi addosso, avrebbero potuto varcare il confine con la Svizzera e acquistare tutti i “libri proibiti” e dunque rimettersi in carreggiata – ha ancora una sua qualche utilità. Solo che in questo caso non si tratta di acquistare libri ma di vedere un film documentario. Precisamente un lungometraggio sulla Feltrinelli. Un lungometraggio di co-produzione europea, nato su iniziativa e co-prodotto dalla stessa Feltrinelli, e presentato con successo al festival internazionale di Locarno, molto apprezzato da personaggi come Bernardo Bertolucci, mandato in onda dal canale televisivo franco-tedesco Arte, pronto a venire proiettato il prossimo 23 gennaio al Solothurn Film Festival, ancora in terra elvetica, e però mai apparso o presentato in Italia. E come mai? Secondo Alessandro Rossetto, il regista del film, ci sarebbe una ferma volontà da parte della Feltrinelli, titolare dei diritti italiani sul lungometraggio, di non farlo circolare qui da noi. A sua volta Carlo Cresto-Dina della Eskimosa (casa di produzione cinematografica del Gruppo Feltrinelli) ha sostenuto a più riprese che il film non sarebbe stato pensato per il pubblico italiano, anzi no, la produzione trova insoddisfacente il risultato raggiunto da Rossetto, anzi no, si tratta di un buon film e si sta già pensando a un lancio in Italia. In attesa che l’ambigua cortina di gelo tra il committente e il suo autore si sciolga, se mai lo farà, e senza poter spendere una parola definitiva sui veri motivi di questo embargo rovesciato, si può dire per adesso che è un vero peccato per il pubblico italiano non poter vedere il film. Perché grazie al cielo non si tratta di un’agiografia e soprattutto perché, se esiste un gruppo editoriale che più di altri riflette nella propria storia l’evoluzione dell’intero sitema culturale italiano – punti di forza e grandi contraddizioni comprese – si tratta proprio della Feltrinelli.
Il film ripercorre la storia della Fondazione, della casa editrice, della catena di librerie utilizzando immagini di repertorio (alcune delle quali mai viste) e soprattutto calando le cineprese nella quotidianità del “lavoro culturale”. Poiché tutto diventa testimonianza diretta e nulla viene visto con la lente dell’ideologia o con l’ansia di dimostrare una tesi prefissata, nei loro momenti migliori gli 81 minuti del film sollevano dubbi e aprono questioni più che darci una risposta univoca. Ad esempio, chi era Giangiacomo Feltrinelli? Il geniale editore che pubblica il Dottor Zivago sfidando il niet sovietico; oppure un uomo già in grado, nei Sessanta, di mantenersi intelligentemente in equilibrio tra marketing e ideologia; oppure l’irrequieto rampollo di una delle più ricche famiglie europee che tenta di sanare le proprie nevrosi prendendo nel ’69 la strada di una clandestinità che, meno di tre anni dopo, lo porterà alla morte? E Inge, sua moglie? La donna che dal 1972 assume coraggiosamente la direzione dell’azienda lottando con le unghie e con i denti per spezzare il cerchio di diffidenza e isolamento in da cui il gruppo viene stretto subito dopo la scomparsa di Giangiacomo oppure la virago che, a un certo punto del documentario, strattona l’interprete di Doris Lessing, rea di voler interrompere un servizio fotografico che la grande autrice sembra non gradire per niente? E Carlo, il loro figlio? L’imprenditore illuminato col sogno di trasformare la Feltrinelli nel “più grande produttore di contenuti europeo” o il puer aeternus circondato dall’affetto paternalistico dei dipendenti più anziani che si lascia bacchettare da Giorgio Bocca in questo modo: “hai avuto un padre che voleva fare la rivoluzione quando non ce n’erano le ragioni, e adesso a te invece il mondo piace così com’è”? E ancora, gli store Feltrinelli: sono la via più democratica alla distribuzione libraria o i luoghi dove la letteratura diventa una merce come un’altra, i supermarket in cui le bibliografie di Saul Bellow, di Samuel Beckett, di Virginia Woolf vedono ridursi giorno dopo giorno gli spazi a loro dedicati, spazzati via dai monnezzoni delle Tamaro, dei Moccia, dei Muccino, il tutto sotto l’egida oleografica del Che, il quale, se solo potesse staccarsi dai megaposter a cui viene costretto come un Cristo in croce, riprenderebbe la guerriglia pianificando l’abbattimento delle due torri (una pila di John Grisham e la gemella, appaltata per esempio a Dan Brown)? E poi, venendo forse al cuore del problema, che cosa serve oggi per costruire una buona linea editoriale – alla Feltrinelli, e agli altri editori che hanno nel proprio dna una missione culturale forte? Ci vuole l’intelligenza e la sensibilità che porta nel catalogo Feltrinelli Kapuscinski e Montesano, in quello Einaudi Siti e Pynchon, in quello Bompiani Bufalino e Bene? Oppure è necessario il cinismo (l’intelligenza e la sensibilità precedenti escludono la buona fede…) che porta Feltrinelli a pubblicare scrittori inesistenti come Moccia e Carcasi, Bompiani a pubblicare Romina Power, Einaudi a pubblicare Gene Gnocchi? Del resto, anche negli aristocratici Adelphi, tra un Faulkner e un Langewische salta fuori una Cathleen Shine… E dunque, ha ancora senso oggi, per un editore che pubblica generalmente buoni libri, avere una missione culturale che non abbia come ragione principale la feticizzazione della propria immagine o si tratta di una zavorra novecentesca da abbandonare al più presto?
Ora, il film documentario di Rossetto solleva tutte queste problematiche – e anzi, se proprio gli si può muovere una critica, è il fatto di non esasperare la messa a fuoco dei propri oggetti d’indagine, trasformando le sfumature in altrettanti indizi, per cui il compito di ricomporre il quadro viene affidato all’abilità e alla scaltrezza (o alla fatica) dello spettatore. E dal momento che queste problematiche rappresentano il core business dell’attuale sistema editoriale italiano – e dal momento che, come dice lo stesso Giangiacomo in una delle sequenze di repertorio: “gli italiani sono anche il risultato dei loro consumi culturali” –, riuscire a far vedere in Italia il documentario di Alessandro Rossetto significherebbe sfruttare un’occasione per riflettere sulla nostra identità, un’attività che il nostro paese riesce a fare sempre meno senza passare per la strada dell’edulcorazione. Per questo, una volta tanto, lavare i nostri panni all’estero potrebbe avere meno senso che farlo in casa.
[pubblicato il 16 gennaio su “Il Riformista”]
L’unica cosa positiva, in astratto, della mancanza di una missione culturale da parte dell’editore, potrebbe essere una maggiore libertà del lettore di muoversi senza feticizzare le sigle editoriali.
Ma ci vorrebbero forse molti più lettori e molto più attivi e desiderosi di faticare di quelli che abbiamo noi. Con un’idea della politica magari meno forte e un’idea della società civile più reattiva. Più individui.
A parte questo, davvero edulcoriamo? Non ne sono sicura, c’è una tale amarezza nei discorsi che facciamo, anche qui, sullo stato delle cose. Nella mia generazione prevale il sentimento dell’abbiamo dato e siamo stanchi, arrangiatevi, anche se non ci piacete; e nei giovani il senso di isolamento e di frustrazione.
E l’esperienza di queste cose è frantumata, episodica, ripetitiva e non riesce a coagularsi.
condivido di Alcor ogni singolo passo
varrebbe forse la pena che i trenta
quarantenni cominciassero a camminare
un pò da soli e prendersi quel che non è dato
effeffe
E’ un discorso cruciale questo. Ma io passavo per dire che (ri)trovo con piacere Nicola Lagioia. Ero un giurato del Premio Narrativa Bergamo e lo votai come vincitore per il suo “Occidente per Principianti”. Poi al testa a testa con Davide Longo (“Il mangiatore di pietre”) non ebbe la meglio. Ma per me resta il migliore di quell’anno. E il suo libro era veramente una boccata d’aria fresca (pensando ai vari Tamaro, Moccia, Muccino..)
Scusate l’O.T., paga bene il riformista?
Per non dire di Mondadori che pubblica di tutto e di più, Lindo Ferretti cattolico primo e non ultimo.
E per non dire di Fazi che pubblica pure Fini, sì, proprio quello di An, e non contento la grande bufala J.T. Leroy, per non parlare delle pile e pile di Melissa. P. ecc. ecc. ecc. ecc.
Per non dire di Piemme che pubblica la Franzoni. E per non dire di Rizzoli che pubblica Elio e le storie tese.
Che noia.
Elio e le Storie Tese, che avevano pubblicato anche per Einaudi, ci stanno. Melissa P. è esilarante, ogni tanto mi capita di leggerla qua e là. Spero non vi siate persi la sua lettera a Ruini (sul Corriere forse?).
Mi pare fosse sul Corriere. Sì.
Ma anche sull’Espresso che sì, parla e parla e parla per poi dire alla fine dire che far sesso non è peccato. Insomma parla davvero tanto.
E’ un po’ la velina dei giornali. ^____^ Molto divertente. Ma inutile.
Poi si fan le pulci a Feltrinelli per un Moccia e un film che qui non vien distribuito. O meglio: non si sa.
Che noia.
E Mondadori che adesso ha il coraggio incredibile di pubblicare – sturatevi gli orecchi – Gianluca Vialli. Ma siamo proprio messi male, malissimo, più di cosi, non so.
fossi io un editore, non avrei alcuna remora a pubblicare libri oscenamente brutti che però vendono un casino. potrei così spillare soldi ai gonzi che comprano in massa tamaro, vialli ecc.. e con quei soldi mandare avanti la mia casa editrice e avere l’assoluta libertà di mettere in circolazione vera letteratura. che, si sa, è necessaria, ma non fa fare danè.
mi affrancherei dall’onerosa necessità del “quadrare il bilancio”, e potrei pagare bravi scrittori che vendono poco. o no?
Sì, ma sta proprio là la contraddizione… Moccia e Vialli vendono un casino, sono più esposti nelle librerie (ad es. le Feltrinelli…), quindi sottraggono spazio fisico alla letteratura di qualità. Certa letteratura di qualità, che già vende poco, comincerebbe a vendere ancora di meno (la maggior parte degli acquisti vengono fatti perché uno si ritrova in libreria un libro davanti al naso, a uno scaffale…), comincerebbe quindi a essere stampata ancora meno etc.
E’ una questione ecologica, Bill, come a dire che io nella vita ho come obiettivo quello di vendere dei depuratori o fondare Greenpeace, e per finanziare l’impresa inizio a fare un commercio di scorie radioattive.
Se la nostra vita deve ridursi a questo, non è un po’ triste?
e pure tu c’hai ragione.
ma come faccio io, editore idealista nonchè raffinato cultore dell’arte a sopravvivere?
come scriveva bianciardi: è una vita agra.
teniamoci a galla finchè si può.
prima o poi il cinastic affonderà.
J Galaxy – la questione ecologica va messa altrimenti: economicamente, per un editore, Vialli è l’ospite, Saviano il parassita. Per salvare un parassita utile, tengo in vita un ospite sgradito. L’editore è una parte terza fra i due, una specie di fattore che munge vacche grasse e (si spera) foraggi quelle magre.
Sul fatto che Dan Brown rubi copie vendute a, per dire, Nicola Lagioia, non so dire, ma non ci scommetterei. Credo che mai come al tempo dei best seller siano stati pubblicati tanti autori. Non è facile vedere se la percentuale di ciarpame è aumentata, e bisognerebbe forse fare un rapporto ciarpame/numero di lettori.
Ma a noi forti lettori piace anche lamentarci…
Se la moltitudine vuole Dan Brown, perché non darglielo?
Chi vuole leggere, per dire, Faulkner, lo potrà comunque trovare anche se non lì a bella posta sulle pile stile torre gemelle di cui dice N.L. Oppure lo potrà ordinare.
Qual’è il punto, allora?
O forse si vorrebbe che la gente leggesse gli autori che piacciono a Nicola Lagioia, Iannozzi, J Galaxi, Bauer o via dicendo?
Povero Bill! In fondo con quel nick che ti sei scelto, che co si poteva pretendere se non il commento che hai tirato fuori dal solito frusto e logoro cilindro!
Io sai che farei? Pubblicherei tutti autori tipo Dan Brown – che peraltro a me piace e anche non poco -, e gli autori che non vendono e che al tempo stesso non sanno scrivere non li pubblicherei affatto: così eviterei le ultime cavolate targate Evangelisti, Wu Ming 5, Genna… e invece mi terrei Dazieri perché vende e anche Biondillo, perché se non altro loro scrivono il loro genere in maniera onesta e non lo spacciano per altro. E scrivono bene pure, cioè in maniera semplice. Ma chi mi esce fuori dal seminato e non ci riesce a farmi vendere bene, allora non lo pubblicherei proprio più. Non me ne frega niente di un Evangelisti che vende due copie e nemmeno di uno Scarpa che invece tre. Per un venduto così basso, giacché sarei io l’editore, a ‘sto punto farei come Fazi e mi pubblicherei il “mio” di libro. E poi metterei su collane economiche per tutti quei classici che sono esenti da diritti d’autore. Ecc. ecc. Vedi, Bill – o comunque tu voglia farti chiamare nascondendoti dietro un magro dito – la mia strategia è molto più semplice e taglia le gambe solo agli incapaci che non vendono. Altro che pagare quelli che vendono poco per incapacità o perché se la vanno a cercare. Ovviamente i Vialli e le Franzoni e i Fini e i Bertinotti di turno, a calci nel sedere, che vadano a farsi pubblicare da altri: perché tanto pure loro vendono due copie, anzi tre. Per una copia non m’affanno e non mi prendo proprio il disturbo.
@bauer. parrebbe. vogliono farsi leggere. una volta si diceva, di uno che scriveva benino, che si faceva leggere.
oggi per farsi leggere bisogna quasi sempre scrivere malino. o malone (muore, muore).
iannozzi è un meritocratico dell’auditel. come bonolis.
Su, ragazzi, ma che male c’è, tutto va bene, gli editori son brava gente, devono pagare i quaderni ai loro figli, fateli vendere, dài, un po’ di tonnellate di letteratura fetida, che male c’è, FAR SCRIVERE POSSIBILMENTE TUTTI, ma cercare di non pubblicare gli scrittori un po’ audaci, quelli che si rischia di non capirli alla prima lettura della seconda pagina del terzo rigo, RAGAZZI, ma perché non fate una colletta per gli editori, anzi, anche per Melissa P, ma aggiungerei Baricco: fategli direttamente dei versamenti, se davvero volete essere compresnivi…
Addio morbo critico, ormai neanche le carote hanno questa malattia…
Si, si, ha ragione Teoria.
Per tutti i lettori di Ennei soddisfatti dell’editoria italiana, la migliore nel migliore dei mondi possibili, propongo una sottoscrizione permanente di 10 euro mensili per la grande editoria, o quella che ha almeno un merdascrittore da migliaia e migliaia di copie: DIECI EURO per il soprabito dell’editore, per il suo nuovo fax. W gli editori di tutta itaglia unitevi.
vedi sopra (dedicato a bekkenBauer)
ve lo meritate marzullo melissa p ferrara vialli totti sanremo il pianeta che si sgaga i ghiacci dal polo ve lo meritate sordi ormai lo siete pure voi sordi
Sono un meritocratico: infatti. Anche dell’auditel.
Le schifezze non m’interessano, neanche se sono firmate: anzi a maggior ragione, calci nel sedere, se fossi un editore, altro che occupare posto in libreria e rovinarmi il catalogo.
Invece in Italia si va avanti a beneficenza e deficienza pubblicando libracci scritti male solo perché in copertina c’è il nome di questo e di quell’altro. Tanto per citare un esempio eclatante: “Free karma food” è semplicemente illeggibile. C’è voluta ‘na gran faccia di tolla a pubblicarlo. Un libraccio così riesce a far concorrenza al peggiore Cesare Battisti – incapace a scrivere e che viene pubblicato pure in Italia, con quale coraggio, boh! E di libracci così, avanti, a iosa.
Appunto: in Italia manca la meritocrazia. Suppliamo con generose dosi di deficienza.
Sono una carota. Volevo dire, modestamente, che non sono d’accordo con quelli del “tutto va ben tutto va ben nel’editoria del belen”. Ma chiedetevi innazitutto chi è il proprietario dei grandi gruppi editoriali. E chiedetevi qual’è il suo problema. Non è guadagnare per potere vendere libri. Non dico “bei libri”. Questa è una fola. L’unico problema di codeste simpatiche aziende del tardo capitalismo è poter vendere E BASTA. (Sono una carota comunista, ahi. Molto malata. Lo so.)
Iannozzi, per me, è ancora uno buono e comprensivo. Magari si astiene dlla sottoscrizione volontaria agli editori, coi partecipano gli altri baueriani. Io invece sarei per la sottoscrizione di “fiammella”: ossia il rogo che brucia i libri solo quelli dalla sintassi piatta (96%).
La Wertmuller una volta scrisse un pezzo su Alvaro Vitali ( non ricordo su quale giornale ) elogiando i suoi film per la grande capacità di attrarre gente nelle sale e permettere la sopravvivenza del cinema tutto, dai produttori, alle comparse, agli attori ai gestori delle sale.
Chissà se Melissa P. o Moccia ( ma, scusate, fra i due ce ne passa e non poco ) non hanno la stessa funzione di alimentazione di un’industria che altrimenti rischierebbe di sparire.
MERITOKRATIKON (HIMMLER)
Ho visto tuo padre, nel sogno, schiacciato dal peso
di svastiche di cemento armato.
Ho visto tuo padre, per la strada, mordere
il freno, anni prima ch’io nascessi,
anni prima ch’io nascessi ho visto violenza
con gli occhi che non possedevo,
ho visto le troie
sui marciapiedi, & la paura
d’appropinquarmi per chiedere il prezzo,
& ho visto Himmler, con gli occhiali,
l’ho visto attraverso gli occhiali, ma tu
non dirlo a nessuno, t’imploro mentre il sole muore, non dirlo,
ma ho visto Himmler nella mia città,
alla manifestazione,
visibilio di croci uncinate
nascoste dietro a cerchiate
l’anarchia,
la nerchia.
E ho visto te, là in mezzo, e fa male,
ma non lo dirò a nessuno, nessuno, nessuno.
Nessuno, nessuno.
E’ l’ora dei suicidi e il cielo è ferito
piove sanguinaccio, piove grandine
di caldarroste
fredde come la morte.
Hot-dog nazionalsocialisti
cadono a terra e rimbalzano,
rimbalzano, rimbalzano, rimbalzano,
rimbalzano, rimbalzano, rimbalzano,
mi rimbalzano nel culo con tanto di senape,
& io odio la senape, poiché è violenta, sapore di fuoco,
& l’inferno è un lago di senape
ribollente.
Anche i tuoi tacchi a spillo son lordi di senape,
verde come la bile,
la bile di me che ti vedo incedere
sul marciapiede, ti vedo eccedere,
& riaffiora la paura,
& sogno mio padre e quelle svastiche,
perché è una cittade di merda, indarno,
e dal mio occhio cadono stille di fuoco
che mi bruciano il naso,
& bestemmio sottovoce,
sussurro: porco dio,
m’adombro col mondo
ch’è immondo
& tutti morimmo a stento, io per primo,
sotto il peso di quelle svastiche,
poiché la città è di merda,
ma io rinascerò,
cervo a primavera,
e insieme sfideremo Himmler,
patatina.
Chiaramente quello non sono io.
Il solito coglione di turno. Il mondo ne è pieno. La rete di più.
Ci sono ridicolaggini, di marketing, in giro che fanno ridere: come la classifica dei migliori libri del 2006 su XL.
Eccola, è molto divertente, non servono commenti
1 Saviano: Gomorra
2 Ammaniti: Come Dio comanda
3 Ballard: Regno a venire
4 Gaiman: I ragazzi di Anansi
5 Coupland: JPod
6 Pulsatilla: La ballata delle prugne secche
7 Piva: Apocalisse da camera
8 Pessl: Teoria e pratica di ogni cosa
9 Evangelisti: Il collare spezzato
10 Albinati: Tuttalpiù muoio
E io sono Jimi Hendrix, come no!
E pure Mozart e Bach!
Ma abbondiamo, tanto: pure Wagner!
Sarebbe divertente capire in base a quali dati è stata stilata una classifica così tanto ridicola. Se questo è “Il meglio del meglio degli ultimi dodici mesi” come sponsarizzano su XL di Repubblica, credo bene che le Patrie Lettere sono morte. Però la classifica è ottima per un Claudio Bisio ad esempio: la portasse a Zelig, il pubblico se la farebbe sotto dalle risate.
A dirla tutta, ha tutta l’apparenza d’uno spot pubblicitario, vogliamo dire di pubblicizzazione? Vogliamo addolcire l’amara pillola? Addolciamola: resta sempre che fa ridere.
Si sono dimenticati di:
Hosseini Khaled
Orhan Pamuk
Giorgio Faletti (che è quello che vende di più e che sa pure scrivere bene)
Mario Rigoni Stern
Carlos Ruiz Zafon
Anna Politkovskaja
Tiziano Terzani
ecc. ecc.
Quella di XL/Repubblica non è una classifica. Solamente una pubblicizzazione. Che fa ridere, mi piace sottolinearlo.
Chi è che compra i libri in Italia? Su, un po’ di sano realismo. Se le case non ospitassero le Melisse le melasse come Muccino e Moccia (tanto per allitterare) come camperebbero? e come ci garantirebbero i libri buoni?
ho una paura fottuta che iannozzi stavolta abbia ragione.
cos’è che fa pensare a iannozzi che io mi nasconda dietro un dito?
@ SITTING TARGETS
Pensa un po’ che paura fottuta ho io d’aver ragione.
@ BILL
Il nickname: Bill. Mi ricorda Clinton. Mai fidarsi di un Bill.
in realtà bill dovrebbe stare per william. come burroughs.
non perchè mi accomuni a lui.
solo perchè prima del mio primo commento avevo appena finito di vedere il corto “bill&tony”.
tutto qui.
iannozzi, mai quanto me, credimi. comunque la battuta è ottima.
credo che ogni uomo abbia buone ragioni per fare un primo bilancio della propria esistenza nel momento esatto in cui si trova d’accordo con iannozzi.
io ho iniziato da qualche minuto. ma cosa mi sta succedendo?
niente. siamo vecchi. poi tu hai anche il “nome”.
scherzi? siamo vecchi? e iannozzi, allora, chi è? matusalemme?
di fronte a riflessioni come le sue, ringiovanirebbe anche prot garrettt, te lo dico io.
io non scherzo mai, robi.
I dattiloscritti di Giuseppe Iannozzi sono stati rifiutati da tutti gli editori italiani. E’ questo il punto.
è questo il suo problema: non riesce a capire che, data l’importanza di ciò che scrive, non li deve inviare tramite dattilografa, ma consegnarli direttamente a mano. oppure, consegnare direttamente le mani. best sellers assicurati. garantito.
Bordigon & Robivecchi: sono un dieci anni che non presento alcunché. Ma anche se fosse diversamente, a me mi scappa da ridere come a un bambino piccolo scappa di far la pipì. :-)
La classifica è troppo divertente. Troppo: ai confini della realtà e dell’irrealtà.
E alla mia dattilografa, questo mese niente paga: così impara a fare la pettegola. :-D
eppure il post di La Joia qualche questione la solleva, anche se non nuova, certo.
eppure qualche spunto per degnamente commentare lo fornisce.
Non so se sia meglio una ristampa di Sanguineti o le caldane littizzesche.
Mi interessa più questo piccolo aspetto del sito Feltrinelli:
“Alcune indicazioni per contattarci via e-mail:
Manoscritti
Al momento non prendiamo in esame manoscritti non richiesti”.
http://www.feltrinelli.it/Contatti
Te lo dico io cos’è meglio… è meglio per esempio che di Beckett non si trovino alcuni tra i libri più importanti? E’ meglio che un genio come Drieu La Rochelle lo trovi solo ai Remainder’s? E che ad es. “Argo il cieco” di Bufalino non sia più i catalogo? Di esempi ce ne sarebbero molti altri. Al di là del grande cinismo che alcuni post dimostrano, credo che la sopravvivenza delle aziende-librerie non passi necessariamente da questi stupri culturali. Una cosa è la sopravvivenza una cosa è l’avidità.
ci hai preso.
Forza Aditus, vero genio del capitalismo culturale, caccia di tasca 10 euro e spediscili alla Mondadori, subito, che poveracci GLi EDITORI FILANTROPI altrimenti non riescono a piazzare Beckett (infatti sulle torri dei libri in libreria Melissa P e Samuel B fanno a gara)
tutti in coro cantiamo w sordi w la piuù bella editoria del mondo nel paese più dotto e critico del mondo: vai con l’assolo ADitus…
grazie robertologo: avanti scrittori con genio spedite dattiloscritti a feltrinelli, che tanto non ve li ha chiesti
(sitting anche tu caccia i dieci euro e spediscili ad arcore)
ad arcore? ma è un editore di ricerca?
Gli editori pubblicano ormai tutti i libri, pure quelli più schifosi.
Tutti gli scrittori, anche quelli più schifosi, quindi sono pubblicati.
Ma chi critica l’editoria, è uno scrittore non pubblicato.
Uno scrittore impubblicato è uno scrittore schifoso.
Eppero’ ha ragione a criticare gli editori, perché il loro mestiere è di pubblicare anche i più schifosi.
marco ferradini ha cambiato mestiere.
Iannozzi è troppo schifoso. C’è un limite a tutto.
Obbe’: solo schifoso!
caro bordigon, se dici: ‘iannozzi scrive cose schifose’, continuo a giocare.
se scrivi: ‘iannozzi è troppo schifoso’, stai già giocando da solo.
Se le multinazionali mettono nel loro lavoro metà della fatica che alcuni autori di questi post ci mettono a fare i cazzoni, siamo perduti per sempre.
Amen. Requiescat. Muoia Sansone con tutti i filistei…
Fra un po’ inizierà l’era in cui non solo ci si compiacerà ma si festeggerà (istituzionalmente) la circostanza di prenderlo nel culo.
splendido. tu sì che sei un cazzone di successo.
@Jenny Carota Says. Quanto vende un Beckett? Quanto vende una Melissa P ? Io mi riferivo al commento di Paolo S. (ma pure al precedente di bill): economicamente, per un editore, Vialli è l’ospite, Saviano il parassita. Per salvare un parassita utile, tengo in vita un ospite sgradito. L’editore è una parte terza fra i due, una specie di fattore che munge vacche grasse e (si spera) foraggi quelle magre.
Quando al bimbo fa male il pancino deve per forza fare tanta pupù che puzza per poter garantire alla mamma niente più lagrime. L’allegoria è un po’ triste, ma è tutto quello che mi è venuto.
Con le vendite di un Beckett starebbe in piedi il suo editore? Solo se questo editore, invece della pupù, perdesse soldi dal popò. Ma non credo che l’editore di cui parli sia un mecenate.
Nel senso che il signor Mondadori i soldi dal popò li perde pure, ma per mangiare pappa che gliene faccia fare ancor di più
@ Aditus !!!
! @
Qualche mese fa sono stato alla Casa del Jazz, a Roma, per assistere a un concerto al quale non volevo mancare. C’era Franco Cerri, che si esibiva in quartetto (chitarra, contrabbasso, batteria e pianoforte) in occasione del suo ottantesimo compleanno. Molti lo ricorderanno ancora per gli spot televisivi del Bio Presto, nel periodo 1977-1980: il famoso “uomo in ammollo” era proprio lui: quello che ha definito uno suo specifico stile nella chitarra jazz; una specie di Django Reinhardt italiano. Un concerto memorabile, e non solo per le sue straordinarie qualità musicali, ma anche per l’atmosfera cordiale e affettuosa che questo esile “gentleman” con la chitarra è riuscito a creare quella sera. Tra un pezzo e l’altro ogni tanto parlava col pubblico, e a un certo punto ha ricordato di come durante il fascismo era proibito suonare la musica jazz e che i titoli delle canzoni americane venivano tutti italianizzati. Così la bellissima “Stardust” di Hoagy Carmichael diventava, ad esempio, “Polvere di stelle”. Appena dopo lo guerra, con la Liberazione, queste musiche cominciarono a diffondersi anche da noi. Tuttavia, poiché l’abilità dei musicisti nostrani era decisamente scarsa, gli editori musicali pubblicavano queste musiche in forma semplificata, in maniera tale che venissero eseguite nel maggior numero possibile di locali, in modo da poter incassare di più in termini di diritti SIAE (il famoso “borderò” che gli artisti compilano a fine serata). La cosa comica, che ha ricordato Cerri, è che quando i musicisti americani sono venuti in Italia a suonare le stesse musiche, non riuscivano a capire cosa stessero suonando gli italiani…
Ora – senza volere “buscar el Levante por el Poniente” con discorsi che la prendono troppo alla larga – vorrei dire semplicemente che una certa “attenzione” al mercato gli editori – musicali e non – l’hanno sempre avuta. L’editore è sempre stato una figura ibrida, a metà strada tra la promozione culturale e l’imprenditoria. La degenerazione alla quale abbiamo assistito negli ultimi anni è dovuta piuttosto a un maldestro tentativo di voler inserire dei fenomeni culturali in un processo industriale e commerciale, dimenticandosi alla fine del prodotto culturale e assumendo come termine di giudizio estetico, o di valore, un fantomatico e comodo “mercato”; come se fosse un’entità astratta che detta le sue leggi naturali. In realtà il mercato non esiste: si crea. Questo mercato, quello dell’industria culturale con cui facciamo i conti ogni giorno, è creato appositamente dai media per sostenere la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo industriale. Il contenuto che veicolano è un accessorio. Come lo sono state le musiche di Giuseppe Verdi da quell’evento nazional-popolare che furono i suoi funerali nel 1901, passando attraverso il grammofono, l’Araldo telefonico (una sorta di filodiffusione ante litteram), la radio, per arrivare alla televisione e a internet. Ogni nuovo medium si deve creare un suo contenuto ideale, deve creare degli immaginari nel pubblico, potenziale acquirente dei suoi servizi. Così è anche per il mondo editoriale, nel momento in cui si è trasformato in strumento di comunicazione di massa. La cultura non c’entra niente. O meglio, non c’entra più.
Che fare?, se questo strapotere è ormai incontrastabile? Sembra banale dirlo: forse (ri)cominciare dal basso?; da forme diverse, più democratiche e alternative, di diffusione della cultura?; dai samizdat?
cp
?
Ma mio caro aditus, tu ne sai qualcosa della vicenda editoriale di Beckett in Einaudi, o parli a vanvera? Io credo che tu parli a vanvera, e le tue metafore non piacciono neanche alla zia Luigia, che non ha mai avuto rapporti carnali con uomini, e ha conosciuto Giuseppe Garibaldi.
Fai il bravo, manda venti euro ad Arcore. Aiuta gli editori a mangiare (caviale).
Come hai notato non conosco la vicenda editoriale di Beckett in Einaudi. E tu, invece che pigliar per il culo, potresti raccontarmela, o no? Per quanto riguarda la questione che in Italia si legge poco e si legge male (non mi spiegherei altrimenti l’andazzo) non hai ancora risposto, ti sei limitato/a a scortesia e prese in giro.
Comunque ‘sta vicenda editoriale di Beckett (che era un ESEMPIO che dubito ribalti il fatto che quel tipo di libri vende di meno di un Moccia) mi interessa, se mi fai l’onore di raccontarla..
E’ molto semplice caro. E smentisce la tua tesi del buon (neo)liberismo editoriale italiano: Beckett di cui Einaudi ha i diritti è bloccato. Vai su Google e confronta quanto è pubblicato in francia e nei paesi anglosassoni e quanto è in circolazione e pubblicato in Italia. Certo Beckett non vende quanto Melissa P (e tanti altri), ma il TUO discorso era: si vende Melissa P per fare anche i libri di Beckett. Ebbeno, no. Hai sbagliato.
Il mio discorso evidentemente non si riferiva solo a Beckett (era un esempio e, a fussura, preso male, visto quello che mi dici riguardo al suo blocco). La mia congettura consisteva nel dire che se tanti editori non proponessero i libri da grandi vendite probabilmente si estinguerebbero.. evidentemente non è il caso di Mondadori, Einaudi e tutte le case del padrone. Io sono un povero pirla e mi limitavo ad una congettura, appunto. Non conosco i meccanismi editoriali e mi limito ai racconti di un’amica grafica di una medio/piccola casa editrice per piccoli. Anche lì, secondo quello che mi dice, la qualità deve essere circondata d’immondizia, immondizia che vende, ma che permette di permettersi qualche buon libro: altrimenti si dovrebbe chiudere bottega.
Ma è più probabile che mi sbagli.
(E’ edificante anche lo sbaglio, certo, magari fatto notare con dei toni adeguati).
Ciao
Aditus, ho solo avuto una piccola crisi di nervi. Perché mi sorprende come riescano a passare sempre più facilmente, presso le persone, le tesi autoassolutorie, le tesi a difesa dell’esistente, le tesi del cosi è e non potrebbe essere altrimenti. Laddove gli editiori (i grossi) invece hanno responsabilità enormi sullo smantellamento/affossamento di quella sfera di letteratura indispensabile all’intellligenza umana. E loro sono invece quelli che dovrebbero garantirla. E lo potrebbero fare, ti assicuro, senza diventare dei madre teresa di calcutta. Ma l’imprenditoria italiana (o universale), sempre di più vola ad arraffare quanto prima entra in cassa e chissenefrega se si lascia terra bruciata dietro.