Ferdinando Tartaglia
Fenomenologia di un’eresia anarchica
di Roberto Saviano
Ferdinando Tartaglia l’eretico, l’agitatore, il chierico studioso, l’eremita sessuofobo, il ripudiato, il riconciliato, l’anarchico, il politico rinnovatore, il poeta sublime, l’inetto freddoloso, il satiro fastidioso, il militante romantico. Tartaglia è impensabile poterlo rubricare. Potrebbe legittimamente essere fregiato d’ogni titolo e sfregiato d’ogni insulto.
Nessuno avrebbe torto. Tartaglia di cui non v’è come Giordano Bruno altro ritratto che il ricordo di chi lo fissò in volto. O forse un’unica foto esiste dove appare uno scricciolo d’uomo fissa l’obiettivo seduto su una collina, con calzini smollati ed un maglioncino pretesco. Tartaglia era nato a Parma nel 1916, precocissimo, aveva mescolato fra i dodici e ventiquattro anni teologia e poesia facendone la struttura portante della sua disarticolata dottrina che conserverà nel marasma delle sue riflessioni per tutta la vita. Tartaglia uscì dal seminario, dove studiò con incredibile rigore e ordinato sacerdote e per dieci anni vestì la tonaca, celebrò messe, unì in matrimonio, e dal pulpito domenicale iniziò a vibrare la voce della sua riflessione, le tensioni del suo ragionare, la potenza della sua eloquenza beffarda e muriatica. Già in seminario Tartaglia aveva iniziato a scrivere con impressionante foga migliaia di poesie, centinaia di saggi, abbozzi di saggi, frammenti di scritture, bibliografie sterminate ed ancora incompiute. Prodigo di voce ed avarissimo nel mostrare finanche una traccia della scrittura. Ogni pagina è stata preservata per sua volontà dalla pubblicazione, nascosta persino agli amici. Nel 1946, dopo essere stato sospeso a divinis, venne raggiunto dalla scomunica, ma lui stesso con molta franchezza dichiarò che il provvedimento era perfettamente giustificato.
Quest’uomo dal “nome di re e dal cognome di buffone” aveva frontalmente attaccato la dottrina della Chiesa in nome di un rinnovamento che non fosse mera riforma, o banale ritorno alle evangeliche origini, ma un completo rovesciamento delle coordinate teologiche, una sovversione radicale dell’intera idea di Dio. Tartaglia voleva rinnovare la relazione, il patto, l’alleanza tra l’uomo e l’idea di Dio. Tartaglia sostiene che Dio non è né Dio nè non Dio, non può esservi quindi una morte di Dio che abbandona nell’abisso, né è possibile dare senso allo spirito astratto nella cui totalità si smarriscono i mistici entrando in intimità col divino. Tale riflessione, intelligentissimo delirio poetico e filosofico è presente in Tesi per la fine del problema di Dio (Adelphi, 2002, euro 8,00) testo tra i pochissimi pubblicati in vita perché in origine testo redatto per un ciclo di conferenze organizzato a Roma nel 1949. Non v’è corpo, non v’è spirito ma qualcosa di terribilmente nuovo, di nuovissimo che non è possibile tematizzare con il cavillo della teologia o con lo stucco della teoremi. Dio nuovo vuol dire Dio anti-origine, quindi Dio anticreatore, anti-Padre, un anti-causa. Un Dio che non si risolve nel nulla ma che non è rivelazione, legge e dogma. “ I rapporti fra Dio e l’uomo hanno costituito finora il capitolo più orrendo della vicenda dell’universo […] l’essenza di Dio è puro male, il massimo male.” Per Tartaglia bisogna dismettere la battaglia che “ci ha annoiati e distrutti” tra Dio e non-Dio e aderire al rifiuto puro, alla trasformazione.
Annuncia la fine dell’uomo e di tutto ciò che più o meno miticamente si è posto sopra l’uomo: “il mondo”, “il tutto”, “il nulla”. Bisogna mettere fine ad ogni origine in Dio e contro-Dio ed iniziare a generare nuovi rapporti e nuove figure dopo-Dio. Dare possibilità a nuove presenze, tracciare nuovi rapporti, andare nell’assolutamente nuovo. Per finirla col problema di Dio bisogna dire basta al trascendente, finirla con l’immanente, finirla con la fine delle cose, percorrere l’assoluta possibilità di origine umana, percorrere la battaglia contro la regola, abbattere le costituzioni, liberarsi dalla decisione, azzannare la volontà e spolpare la liberta. Il discorso di Tartaglia non rifugge dalla contraddizione, anzi è alimentato da essa. Ma di ciò è impossibile poter parlare sistematicamente come Kant almanacca di metafisica nella sua Ragion Pura. Il tentare di porre descrizione, segmento interpretativo a ciò che è la nuova intesa di Dio, e il nuovo proporsi dell’uomo, sarebbe come confermare una struttura teologica medesima. Ecco perché Tartaglia accede alla poesia come strumentazione amorfa e quindi libera dalle determinazioni logiche che un sistema filosofico pretenderebbe. Come Leopardi, che si definisce filosofo ma non concede al suo pensiero sistema per permettere alle sue parole di essere aperte agli afflati dell’eterogeneo, così Tartaglia scrive versi immergendoli nella benzina del suo pensiero.
Tartaglia è un poeta di razza. Un versatore grandioso. La sua parola non celebra, non ricorda, non bacia bellezze né vuole esser arte perfetta e intonata. I suoi versi sono foggiati con il fulmicotone. Esercizi di Verbo testo ora pubblicato da Adelphi e Tre ballate pubblicati da Book Editore (Bologna, 2000, euro 9.30, bookeditore@libero.it) sono le uniche raccolte poetiche di Tartaglia che il lettore italiano può gustare. In Tre ballate il ritmo, la parola nuova, la rima usata quasi come dileggio ultimo di una pratica, quella poetica, che si compone quasi con un ghigno provocatorio, anche se pregno d’amarezza. Paradigma di ciò sono i versi di “Sprecato”:
Io sono il dato andato: io lo sprecato
che andato è andato perché così è andato
se mai non si saprà codice o comma
Io sono il dado mal giocato al fato
Io sono il dato sdato: io lo sprecato.
La poesia di Tartaglia è attraversata dallo spirito di Baruch Spinoza, dalla capacità di smarrire se stesso nella totalità del vivere e nell’insoddisfazione di avere in questa totalità riconosciuto un pur sterminato limite, che forse, soltanto la parola più tentare di slabbrare in uno spazio interminabile.
Di tutto ò morte per morire il mondo
Di tutto ò vita per svitare il mondo
Di tutto ò vecchio per vecchiare il mondo
Di tutto ò nuovo per nuovare il mondo
La sua è una penna sferzante e persino acida. I ritratti presenti in Esercizi di Verbo sono vere e proprie perle. Talento di Tartaglia è quello di attaccare gli intellettuali padri delle patrie lettere e nuovi ragazzetti emergenti, come all’epoca Umberto Eco a cui dedica gli indimenticabili versi che dileggiano la sua summa enciclopedica spacciata per letteratura:
Eco d’accordo. Ma dov’è la voce?.
I versi dedicati a Thomas Mann paiono quanto di meglio si possa dedicare al sommo tedesco:
Il classico mattone caduto per caso da una distratta impalcatura
d’Olimpo.
Ed ancora:
E’ il classico da emicrania.
Gli mancano due cose: lieve volo, buon gusto.
Forse anche una terza, non ricordo.
Tartaglia è inarrestabile. Stigmatizza anche Guido Ceronetti di cui non sopporta la sua volontà eretica di voler rilanciare una letteratura contaminata di sacralità nuova ed in questa trovare un ipotetica forza dissacratoria.
Ragazzetti ragazzetti ecco lì c’è Ceronetti
Porta bibbie e reca cessi. Viva viva Ceronetti.
Pirandello è insultato, quasi smerdato dai versi di Tartaglia:
Quale sarebbe Fernando il peggio inferno?
Leggere una due volte o ascoltare
Drammi commedie romanzi e le novelle
Tutte le noiosaggini d’avello
Tutte le fesserie di Pirandello
Anche i personaggi politici non sono risparmiati. Colui che sollazzava più Tartaglia per ridicolo e buffoneria è Mussolini, che il poeta definì come nessuno mai fece:
come un porco che andasse a le frette e volesse sembrare leopardo
Tartaglia era disgustato dalla cultura italiana, che definiva “paludetta” divisa tra esistenzialismo e crociani, tra appartenenze di partito e viltà da romanzieri che pensavano alla propria scrittura come mero fenomeno rinnovatore. Per Tartaglia la letteratura italiana va tutta ripensata va ridetta tutta soprannaturalmente. Oltre la scrittura come orpello o produzione, ma come un banco di prova, un laboratorio urlante di ipotesi e novità, un tavolo dove foggiare novità radicali, nuove ipotesi di vita, nuovi al di la, nuovissimi al di qua. Il suo però non fu solo impegno d’inchiostro e verbigrazia. Tartaglia fu in prima linea nel dopoguerra, nella Firenze degli anni ’50, impegnandosi quotidianamente nel sogno di ricostruzione di una umanità nuovissima, reale, fatta di carne e sangue, di mutamento nel tempo presente.
Fu protagonista assieme al pacifista Aldo Capitini del Movimento di Religione, incredibile spinta rinnovatrice che raccolse le migliori forze intellettuali ed umane della Firenze sopravvissuta alla guerra: “così né l’uomo né l’anima dell’uomo potranno essere elementi di questa nuova fondazione religiosa ma solo il loro infinito trascendimento…” Tartaglia sembrava essere il profeta di questo nuovo avvento, con un ruolo da “novurgo” un termine uscito dalla sua fucina linguistica. Un termine ibrido di “nuovo” e “demiurgo”, un organizzatore di novità. Un uomo della novità, così infatti lo chiama Giulio Cattaneo autore di una biografia della fase militante e politica di Tartaglia a Firenze, “L’uomo della novità” (Adelphi, 2002, euro 7.50). Nei circoli del Movimento di Religione si avvicendavano anarchici radicali, comunisti staliniani, cattolici penitenti, protestanti accesi. Tartaglia primeggiava in eloquenza attirando persino la borghesia fiorentina, diffidente e arcigna, e trascorreva ore ed ore del suo tempo a dibattere di ogni tipo d’idea ed ipotesi, smontando le panolplie ideologiche, frammentando le rigidità del marxismo, facendo evaporare le vacuità idealistiche, mostrando le terribili contraddizioni della chiesa cattolica.
Cattaneo descrive in bellissime pagine questo spiritello smunto, rincantucciato in una casa gelida, riuscire a far gravitare intorno alla sua mente ed alle sue parole una cinetica di pensiero capace di rifondare l’intero senso dell’universo. Un uomo che non ha mai temuto di dialogare dei massimi sistemi anzi in essi si è gettato a capofitto considerandoli territori inesplorati. Quando qualcuno gli chiese provocatoriamente: “ma lei non sarà il diavolo?” lui rispose “ho visto il diavolo del Tintoretto è bellissimo.” Non soltanto provocazione ma tentativo di umanizzare il momento del confronto, rendere unico lo scambio della parola e della proposta. Tartaglia era attentissimo anche ai modi d’esposizione, nelle sue battaglie retoriche rivolgeva del “tu” a tutti, perché come disse a Capitini “diamoci del tu che per me è divino”. Nelle sacre scritture infatti, Dio non si rivolge mai con la distanza dell’educazione di casta. Tartaglia rende atto ciò che in Nietzsche era stato registrato sulla carta e con l’inchiostro, liberare l’uomo dalla determinazione, scardinare le porte della necessità, sfasciare le pareti della vita concessa e andare verso un’altrove dove ogni atto è sgorgato dalla libertà da ogni necessità, vivo nell’imperitura energia della vita.
“Iniziate, iniziamo finalmente una critica delle cose, estrema e impietosa. Rifiutate l’uomo come è stato fino a oggi ed è tuttora perché non è la verità. Cominciate, cominciamo davvero a distruggere on esattezza e con impeto. Rifiutate l’uomo così come è stato fino ad oggi ed è tuttora perché non è verità. Rifiutate la società degli uomini come è stata fino a oggi ed è tuttora perché non è verità. Rifiutate l’universo così come è stato fino a oggi ed è tuttora perché non è verità. Rifiutate la verità perché bisogna ormai andare oltre la stessa verità, verità non è ancora novità.” (L’uomo della novità pp. 57/58).
Tartaglia dopo una prima fase di enorme entusiasmo agli inizi degli anni ’50 non aderisce più al Movimento di Religione, non gli convince più l’impegno parziale, politico e non più “universale” come aveva creduto potesse essere. Continuò il pensatore una militanza anarchica, appoggia la FAI (Federazione Anarchica Italiana) nella battaglia contro il voto, collabora per lungo tempo al settimanale libertario “Umanità Nova”. La sua produzione è sterminata ma nulla è stato pubblicato in sua vita ciò che oggi il lettore può leggere di Tartaglia è solo uno spillo della sua produzione. Oltre cinquantamila pagine, solo il testo inedito Proposte senza fine testo composto da 270 proposizioni, ammonta ad ottomila pagine. Tutto è inedito ma forse prima o poi, nei lenti tempi dell’editoria, riuscirà a divenire leggibile. Come lui stesso scrisse: “io sarò erede d me stesso”. Adriano Marchetti scrive nella postfazione al libro Esercizi di verbo che “quella di Tartaglia più che un’opera è la sua attesa”, eggià perché Tartaglia piuttosto che un pensatore della crisi, è la crisi stessa, è la crepa entro cui versare il sangue e così aprire la falla da cui avrà origine la distruzione dell’edificio. Tartaglia è l’ouvertures ed il concerto, il coro e gli ottoni. A ragione lo scrittore Giuseppe Montesano quando definisce Tartaglia come una sorta di cocktail alchemico dove: “l’Adorno più intransigente nell’evocare e negare l’utopia, l’Eckhart più avvitato nella spirale mistica del né questo né quello e il Nietzsche che voleva spazzare il cielo dalle nubi della necessità si incontrassero e si scontrassero sull’orlo del non più dicibile. ”
Tartaglia auspicava quasi in sintonia con le profezie d’anticristo l’arrivo di un liberator ecclesiae: “ il quale collocandosi al posto della somma autorità cattolica sciolga tutto ciò che questa costringe e venga così annientando il cattolicesimo…”. Nessun antipapa, nessuna svolta interna al Vaticano vi fu. Tartaglia si ritirerà in un lunghissimo silenzio, si sposerà, avrà una vita di silenzio e gioie minori. Nel 1987 morirà, ma poco prima di spirare il suo desiderio di morire con i “santi segni” gli fu accordato. La scomunica fu revocata e morì riconciliato con la chiesa cattolica apostolica romana, che per tutta la sua esistenza aveva cercato di mutare ed avversare al fine di poterla mettere alla testa di uno stravolgimento immenso pari soltanto all’impresa che tentò Lucifero quando tento di sovvertire il trono celeste. In fondo Tartaglia rimase sempre cristiano e cattolico, affascinato dal peccato, dal perdono, e dall’idea ribelle di Gesù che tentò nel disperato amore di cancellare il Dio della teologia e di renderlo altro, attraverso la carne, il sudore, le lacrime, il sorriso. Il sogno di Tartaglia di liberare l’essere umano dal vincolo del progetto, dalla traccia, della tradizione e dal dogma sembra raccogliere in se un lungo percorso attraversato dalle orme dei ribelli trecenteschi, dagli eretici del cinquecento, dai catari, dai filosofi arsi vivi, un percorso che innesca la sua voce attraverso Rilke, i passi di Cervantes e le parole di Errico Malatesta. Ma al postutto in Tartaglia risiede la delirante e saggia certezza che la parola possa davvero rinnovare il mondo nell’infinita possibilità di creare origine nuova, finché ci sarà possibilità di dire e quindi di generare nuove cose.
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Pubblicato su PULP n°53 gennaio-febbraio
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bello il personaggio, di cui ignoravo l’esistenza, e bello il pezzo. mi fa piacere che anche tu frequenti queste aree linguistiche liminari, queste zone nebulose di confine della scrittura e insieme della coscienza umana…io sono convinto che questi sono i nuovi territori che deve guadagnare la letteratura…ma ne sono convinto anche per motivi pratici, etici, politici…se non si allarga il punto di vista, se non si rende il respiro letterario più ampio e profondo, la scrittura è destinata a sprofondare sempre più nell’insignificanza…
grazie roberto, anch’io non conoscevo Tartaglia; e il tuo pezzo è quindi importantissimo (anche se Sanguineti direbbe che dovresti occuparti di “fenomeni” più popolari) e anch’io ho una passione per i personaggi irregolari e intensi come lui; l’Italia per altro non ne è spoglia, ma li teme come il “diavolo” (guarda caso); e si potrebbe farne una galleria (in poesia non ne mancano… benché appaiano poco nei dintorni del canone o dei canoni…)
Nemmeno io conoscevo Tartaglia. E dunque non posso che ringraziarti doppiamente, e correre a ordinare il libro – almeno uno.
Strabordante come sempre, Robbè!
Davvero coraggioso questo Tartaglia se pensava a un mondo nuovo costruito sulla base di teologia e poesia, forze che oggi fanno ridere la maggior parte delle persone perché sanno di vecchio e muffo, ma che in realtà stanno alla base della nostra civiltà.
Dovrò leggerlo per capire meglio quale sia la sua Visione (in senso blakeiano), se c’è. Tu metti in luce la sua vis destruens, l’indicazione di un “trascendimento”, la figura dell'”Anti-papa”, ma mi sembra che non ci sia una vera e propria “Utopia”. Approfondirò.
Un caro saluto,
Vincenzo
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